INFORMAZIONI GENERALI
QUESTO E’ IL BLOG DI TELEFONO VIOLA, ASSOCIAZIONE DI VOLONTARIATO SENZA FINE DI LUCRO. IL SUO OPERATO SI BASA SULLE IDEE E SULLE PRATICHE DI GIORGIO ANTONUCCI E DI THOMAS SZASZ. NASCE A ROMA IL 22 OTTOBRE DEL 1991, FONDATA DA ALESSIO COPPOLA, ALLORA PRESIDENTE DEL CEU, CENTRO DI ECOLOGIA UMANA. SI DICHIARA PER LA SOLIDARIETÀ SOCIALE E CONTRO GLI ABUSI, LE COERCIZIONI E LE VIOLENZE DELLA PSICHIATRIA COMUNQUE E DOVUNQUE SI MANIFESTINO. LA SUA SEDE LEGALE E’ PRESSO IL CESV, IN VIA LIBERIANA 17 - 00185 ROMA. LA SUA SEDE OPERATIVA (PER INCONTRI E COLLOQUI CONCORDATI) E' IN VIALE MANZONI 55 (METRO MANZONI) PER GENTILE OSPITALITA DELLA FEDERAZIONE COBAS. CHI VUOLE CONSIGLI PER DIFENDERSI O DENUNCIARE ABUSI PSICHIATRICI PUÒ ANCHE TELEFONARE DAL LUNEDI’ AL VENERDI’ AL NUMERO 06. 59 60 66 30 (SEGRETERIA IN RIPRISTINO A PARTIRE DAL GIORNO 22 OTTOBRE ‘12, GIORNO DEL NOSTRO VENTUNESIMO ANNIVERSARIO). SI PUÒ AFFIDARE UN APPUNTO ALLA SEGRETERIA CON I PROPRI DATI, PER ESSERE RICHIAMATI APPENA POSSIBILE. COSA PUO’ FARE IL TELEFONO VIOLA? ATTUALMENTE POSSIAMO OFFRIRE UN ORIENTAMENTO SULLA QUESTIONE PSICHIATRICA, CHE CI DERIVA DALL’ESPERIENZA DEI NOSTRI CONSULENTI E COLLABORATORI, E CHE SERVE SOPRATTUTTO A PREVENIRE E CONTRASTARE IL PIU’ POSSIBILE I TRATTAMENTI SANITARI OBBLIGATORI (TSO). INFATTI, IL TSO E LE SUE FORME INDIRETTE SONO LE PRATICHE PSICHIATRICHE VINCOLANTI DOVE PIU' SI VERIFICANO GLI ABUSI DELLA PSICHIATRIA. GLI ASCOLTI TELEFONICI, I COLLOQUI E I CONSIGLI OFFERTI DALL’ASSOCIAZIONE SONO GRATUITI. (LA DIFESA LEGALE DA NOI EVENTUALMENTE CONSIGLIATA E’ A SPESE DELL’UTENTE). DOPO VENT’ANNI RESTIAMO UN’ ORGANIZZAZIONE CHE SI BASA SUL LAVORO VOLONTARIO E GRATUITO DI POCHI SOCI. PER ESSERE PIU' EFFICIENTI ABBIAMO BISOGNO DI AIUTO DAI NOSTRI UTENTI E SIMPATIZZANTI. PER SOTTOSCRIZIONI E DONAZIONI (UNICA FONTE DI SOSTEGNO) USARE IL CONTO CORRENTE POSTALE N° 6087021 INTESTATO A TELEFONO VIOLA. PER BONIFICI BANCARI USARE IL CODICE IBAN IT04 W076 0103 2000 0000 6087 021 (CIN W; ABI 07601; CAB 03200; N. CONTO 000006087021). SI POSSONO VERSARE SUL CONTO CORRENTE ANCHE PICCOLE SOMME DI /5/10 EURO, PER COPRIRE LE SPESE DI SEGRETERIA TELEFONICA (IN MEDIA LA SPESA PER NOI E’ DI 2 EURO PER OGNI CHIAMANTE CHE CHIEDE UN CONTATTO). IN CASO DI CRISI DI SOSTEGNO NON POSSIAMO GARANTIRE LE TELEFONATE SUI CELLULARI. IL BILANCIO DELL’ASSOCIAZIONE E’ PUBBLICATO SUL BLOG E SUL SITO. NOTA. INVITIAMO TUTTI GLI INTERESSATI A INTERLOQUIRE CON QUESTO BLOG E CON LA PAGINA FACEBOOK (TELEFONO VIOLA) CON SPIRITO SOLIDALE E COSTRUTTIVO. SI AVVISA CHE PER EVITARE PERICOLOSE CONFUSIONI, IL TELEFONO VIOLA NON RICONOSCE E DIFFIDA ALTRI ORGANISMI CHE USINO IL SUO NOME SENZA ADESIONE AL SUO STATUTO E FUORI DA ACCORDI E DELEGHE SPECIFICI. (Testo aggiornato al 25 novembre 2012)

mercoledì 22 giugno 2011

Absract di Maria Rosaria D'Oronzo

Da Maria Rosaria D’Oronzo
Centro Relazioni Umane - Bologna

Il mio brevissimo ma sufficiente absract:

"La negazione del T.S.O. nasce dal lavoro del dottor Giorgio Antonucci, a cui mi ispiro, come per la negazione della diagnosi psichiatrica". 

Ulteriori informazioni: www.antipsichiatria-bologna.net.

The Psy-Personality - Giulio Murero


The Psi–Personality
Dal DSM 5, di recente pubblicazione, ricaviamo questo interessante tratto di personalità patologica, caratterizzata dai seguenti dieci punti.

  1. Psi-Personality (successivamente abbreviato in PP), ricerca sempre ambiti privati o nascosti dove agire.
  2. PP ha tendenza a nascondere le reali finalità del proprio agire.
  3. PP inganna sistematicamente, anche se non sempre consapevolmente, sugli effetti del suo agire.
  4. PP manifesta grande disagio quando deve agire pubblicamente e si serve, per questo, di persone che gli ubbidiscono in maniera acritica.
  5. PP agisce spesso in modo illogico, mai su base razionale.
  6. L'espressione di un punto di vista diverso dal suo, provoca sistematicamente in PP profonde alterazioni disforiche del tono dell'umore (s'incazza).
  7. Allorché viene messo in luce e dimostrato un suo comportamento gravemente lesivo nei confronti del prossimo, anziché riconoscere il proprio errore e fare promessa di ravvedimento o semplicemente stare in silenzio, PP prolude in una serie di affermazioni illogiche: dice di essere nel giusto, di agire razionalmente, di avere basi scientifiche, di essere una sorta di benefattore, arriva perfino ad accusare la propria vittima di ingratitudine.
  8. PP ha estremo bisogno di mezzi di potere: persone ubbidienti, una posizione che gli consente il ricatto, connivenze e/o appoggi istituzionali.
  9. Un tratto molto caratteristico di PP è quello di non agire quasi mai di propria iniziativa, ma su richiesta di persone con sindrome simile alla sua e portate ad abusare nei confronti di soggetti deboli: bambini, adolescenti, anziani, carcerati, malati.
  10. Come triste tratto finale, PP è estremamente difficile da aiutare, sia per le caratteristiche proprie della sua patologia per cui difficilmente riconoscerà tratti erronei in sé, sia perché, nei rari casi in cui PP richiede aiuto, la tendenza sarà quella di rivolgersi proprio a quelle persone che in gran maggioranza soffrono della stessa sindrome: psichiatri, psicologi, psicoanalisti.

Ovviamente tale sindrome è stata da me ideata, sulla base però di ormai ventennali rapporti conflittuali con i personaggi sopra indicati. Se pur ben realistica, altrettanto ben difficilmente potrà trovare posto in un DSM redatto dagli stessi psichiatri, in stragrande percentuale organicisti.
Auguro a tutti un ottimo lavoro, raccomando di non esercitarsi in cosiddette alternative alla psichiatria, ma di limitarsi a denunciarne gli abusi nella prospettiva di riuscire a promuovere efficaci strumenti di autodifesa.
Il tutto nella riscoperta dei più autentici valori cristiani e universali, fatti di libertà e buone opere, nell'umiltà di chi è consapevole delle proprie limitate umane capacità di giudizio.
Dr Giulio Murero
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Gruppoanalisi - Francesco Pieroni


ABSTRACT di Francesco Pieroni
Presidente IGARS
Istituto di Gruppoanalisi per il Sociale Roma

"Gruppo" e "Gruppoanalisi" alludono all' "essere insieme" proprio dell'esistenza umana e del suo organizzarsi.
Ma non parlerò di teorie, bensì di uomini come testimoni che per la loro “diversità” hanno sperimentato il dramma dell’emarginazione e la fatica di essere insieme.
Lisa, una donna sensibile profondamente capace di partecipare, ha combattuto una intera vita per difendere la sua libertà e contro la violenza della emarginazione.

Ventuno maggio

"Gruppo" allude all'essere insieme, che è croce e delizia dell’umanità. Non vi parlerò di teorie ma di miei compagni di viaggio, testimoni e vittime di un percorso tanto faticoso per diventare "uomini". L'anno passato: Nello; quest'anno: Lisa.
Dunque, dobbiamo risalire ai primi anni 80.
Lisa l'ho incontrata sulla metro B. Vestita di colori sgargianti e bizzarri, col suo visetto da bimba dispettosa: in una perfetta imitazione di russo, si rivolge ai compagni di viaggio per denunciare comportamenti immorali e violenti… contro la Legge 180 (che dimostrava di conoscere bene). Finito il suo sermone, Lisa si rivolge a me con occhio furbetto: "d’accordo, Principe, vero?!". Poi come un folletto si fa largo tra la folla della Metro e passa oltre; altro vagone altro discorso!
Con Lisa ho avuto una lunga frequentazione; abitavamo sullo stesso pianerottolo di una palazzina della periferia romana ed anche se i nostri orari non coincidevano ogni giorno aveva un appuntamento quasi fisso: la sera verso le otto e mezzo.
Lisa suonava tre volte il campanello della porta ; Mary, mia moglie oppure io facevamo la domanda di rito sapendo già la risposta altrettanto rituale: “chi è?”
Risposta: “sono Lisa, la vostra dirimpettaia, la padrona dell’appartamento di fronte.”
Aperta la porta , alla domanda cosa le servisse, Lisa fa una specie di lista della spesa: sale grosso, uova, olio, tonno, cipolle, pane caffè …fino alla mitica “pasta Bettini corta” che inizialmente mi metteva in difficoltà non avendone proprio in casa. Lisa però mi rassicurava; non mi dovevo preoccupare se non ce l’avevo, me l’ avrebbe portata lei … e così faceva ;andando a prender la pasta corta nella sua dispensa .
E così, sulla porta di casa si realizzava uno scambio, un contatto, che alla fine era diventato come il “bacio della buona notte”; potevamo andare a dormire in pace.
Lisa era spesso al centro delle chiacchiere del quartiere, per le sue “stravaganze” e per certi “sermoni”, nei quali svelava ai quattro venti, pensieri e fatti tenuti gelosamente nascosti dalle persone per bene. Si può dire che nel piccolo rione dove ha vissuto, sia riuscita a trovare un suo posto; più temuta (la follia spaventa) che amata, Lisa aveva, comunque il rispetto di tutti , compresi i ragazzi del quartiere, che le si rivolgevano sempre dandole del Lei . Cosa che Lisa ricambiava generosamente distribuendo a destra ed a manca titoli nobiliari di conte, duca, principe, eccellenza, ecc, (la mia cara Mary, per esempio era la Principessa Margot) salvo declassare a livello di “sig. Tecnico” quando qualcosa le andava storto.
E quello che la faceva infuriare erano le ambulanze e gli estranei che osavano varcare il cancello del condominio, o addirittura bussare alla sua porta: razza maledetta di sporchi violentatori !!
Bisogna dire che le ragioni di Lisa per queste avversioni erano più che giustificate. Lisa amava la libertà: passava le sue giornate a spasso per Roma, o sulla metro parlando lingue che nessuno conosce tanto per dire quanto si è stranieri in questo mondo, senza far male a nessuno, anzi…e la sera rientrava a casa in tempo utile per il rito della “pasta Bettini”.
Eppure questa sua libertà era costantemente insidiata: quasi ogni anno si ripeteva il tentativo di parenti “solerti” che si ritenevano in obbligo di”curare” Lisa. Tentativi sinceramente maldestri ; al mattino un’ambulanza si fermava un po’ nascosta nelle vicinanze di casa, mentre due o tre parenti ed operatori cercavano di “stanare “ Lisa dal suo nido per portarla via. Ma Lisa non era fessa e in un baleno, come un folletto, prima che gli assedianti prendessero posizione, si trovava già sulla metro a fare le sue giustificatissime arringhe contro i violentatori e gli stupratori… legge 180. Ad onore del mio condominio e dell’intero quartiere posso dire che tutti tifavamo per Lisa.
Le cose sono andate bene fino ad un inverno di alcuni anni fa, quando gli uomini dell’ambulanza, dopo almeno una decina di tentativi andati a vuoto, sono riusciti a “catturare” il soggetto.
Dopo tre mesi di "cure" Lisa è tornata a casa. La sera non ha piu' ripetuto il rito della pasta Bettini ed anche le sue uscite in città si sono fatte sempre più rare e brevi.
Sono seguiti giorni duri per noi e per Lisa. Mary si è ammalata e in meno di un anno ci ha lasciati. Lisa dal chiuso del suo castello inaccessibile seguiva muta, passo dopo passo, il dramma del dolore e della morte. E’ sempre stata in silenzio in quei giorni, anche le sue arringhe contro i violentatori ex lege 180 sono stati sospesi.
Poi, quando una sera mi ha visto tornare, solo, a casa, è corsa ad aprirmi, premurosa la porta dell’ingresso; “Però che brutta cosa le hanno fatto, signor Principe! ” … un inchino e via…
Nel giro di pochi anni, la nostra cara Lisa da quel folletto danzante che era, (forse per le medicine che più o meno forzatamente era costretta ad ingoiare, forse per l’inattività) si è trasformata in una specie di mongolfiera, irriconoscibile ed ansimante dentro un corpo e con pensieri ogni giorno più pesanti.
Un mattino, ho avvertito del movimento nella strada di solito tranquilla. Mi affaccio; davanti al cancello di casa sosta un’ambulanza e tre uomini vestiti di bianco… con altra gente intorno.
Cosa è successo? – chiedo –
Sa, è quella signora …strana … è caduta dal letto …”
Dal portone di casa esce una barella, dalle lenzuola candide spunta il faccione rubizzo di Lisa.
Di scatto, ricordando l’agilità di una volta Lisa si alza seduta sulla barella che traballa sotto il peso dei suoi cento e passa chili, poi, e con solennità, ringrazia tutti i presenti “anche quelli che stanno dietro le finestre” e scusandosi “per il disturbo”,
si distende infilandosi sotto le lenzuola.
Non ho più visto Elisa; dopo tre giorni da quel mattino stava già questionando con San Pietro per quel tintinnare di chiavi che non la faceva stare tranquilla; legge 180!

Relazione sul disagio diffuso - Mariano Loiacono


Abstract di Mariano Loiacono per 21 maggio

ABSTRACT MIA RELAZIONE
Il "disagio diffuso" da trent'anni interpella un superato punto di vista psichiatrico e spinge verso nuove prospettive intepretative e metodologiche che tengano conto dello straordinario "mutamento antropologico" che si è evidenziato dal secondo dopoguerra.
Sono entrati in crisi i paradigmi occidentali medico-religioso adottati per la "salus" personale e collettiva.
Molti psichiatri stanno entrando in crisi rispetto alla metodologia psichiatrica dominante ma non ancora trovano prospettive da loro ritenute adeguate e credibili.
E' possibile e doveroso sperimentare alternative al modello univoco psichiatrico adottato nel mondo-villaggio.
Il "metodo alla salute" dal 1976 va in questa direzione e rappresenta una buona alternativa che parte da una teoria-prassi globale in cui sono riconosciuti-alimentati-stimolati tutti e tre i codici del viaggio della vita. In tale prospettiva sono superati tutti i capisaldo del modello psichiatrico dominante.

Analisi del DDL Ciccioli e del successivo DDL a testo unificato sulla modifica della legge 180/833 - Natale Adornetto


Appunti di Natale Adornetto
sulla/contro la Proposta Ciccioli
(per il 21 Maggio, la rete legale e l’azione di Telefono Viola)

CARLO CICCIOLI, LA MALATTIA MENTALE
E IL CONTRATTO DI ULISSE

Dopo l'ultima ascesa del Governo Berlusconi, in poco meno di un anno sono stati presentati ben 5 DDL (Disegni di Legge) per la modifica della Legge 13 maggio 1978 n° 180, successivamente integrata negli articoli 33, 34, 35 e 64 della Legge 23 dicembre 1978 n° 833.
In questo articolo prenderò in considerazione soltanto il DDL dello psichiatra e parlamentare Carlo Ciccioli. Ciò sia perché finora Ciccioli è stato il più battagliero e il più deciso nel far approvare il suo DDL e sia perché proprio di recente si è discusso del suo DDL alla Camera.
Per essere precisi, intendo argomentare sul contratto di Ulisse di cui Carlo Ciccioli parla nel suo DDL.
Dal DDL: "la necessità di tenere presente quanto, su un piano etico, sia giusto riconoscere al paziente psichiatrico in termini di dignità ed autodeterminazione che devono essere salvaguardate anche in relazione alla patologia presentata. In questa ottica, dovendosi conciliare le esigenze dell'individuo con quelle dell'attività clinica, molto attuale risulta una proposizione di collaborazione medico-paziente, rispettosa dei diritti di quest'ultimo, ma duttile alle esigenze terapeutiche. Si tratta del contratto terapeutico vincolante per il proseguimento delle cure che ben si configura con la denominazione di «contratto di Ulisse»: esso vincola il paziente, originariamente d'accordo, a farsi seguire anche a prescindere da una volontà contraria, manifestata in una successiva fase della malattia [...] il principio di autodeterminazione riconosce il primato della persona sugli interessi della scienza e della società, nonché il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali di uguaglianza, autonomia e libertà dell'individuo quali espressioni di valori e principi universali ed inalienabili".
Segue una lista di Codici, Dichiarazioni e Convenzioni sui diritti fondamentali e inviolabili della persona, e si continua a parlare di "centralità riconosciuta al principio di autodeterminazione". Poi:
"Con tale strumento, definito dalla letteratura scientifica americana «contratto di Ulisse», sarebbe possibile gestire consapevolmente comportamenti patologici stabilendo disposizioni in merito alla propria ospedalizzazione o al trattamento con terapie specifiche da far valere anche per lfipotesi che, nei periodi di crisi, si manifesti una volontà contraria".
Vi invito a riflettere su alcuni punti. Si parla tanto di diritti, autonomia, libertà, autodeterminazione, ma poi ciò che di fatto accadrebbe, è che la persona che contrae il contratto di Ulisse perde ogni diritto, autonomia, libertà e autodeterminazione. Una volta vincolata col contratto di Ulisse, la persona non può tornare indietro, non può cambiare idea, non può prendere un'altra decisione, non può avere una volontà contraria. Può manifestare una volontà contraria, ma questa non conta, vale il contratto di Ulisse stipulato prima.
E stando così le cose, vanno a farsi benedire e si gettano alle ortiche tutti i bei discorsi sull'autonomia e sull'autodeterminazione. Dove sta l'autodeterminazione in una persona a cui viene negata una decisione sulla base di un impegno assunto in precedenza? Il punto è "Firma, e perderai autonomia e autodeterminazione".
E questo già basta a capire che quelle belle parole sono solamente fumo negli occhi. C'è poi un altro punto. Vien detto che il manifestare una volontà contraria a quella espressa in precedenza, può esserci nei momenti di crisi. Viene cioè stabilito - ma su quali basi? - che la volontà contraria è dovuta alla crisi, e che quindi va considerata la volontà iniziale. Certo, uno in crisi mica può prendere decisioni, no? Automaticamente, è ovvio che la persona che cambia idea viene etichettata come persona in crisi, così il giochino è fatto.
Mi sfugge però un'altra cosa. La persona, quando fa il patto di Ulisse, non è in crisi, giusto? Se fosse in crisi non potrebbe assumere questo impegno, giusto? Perché se è in crisi non può decidere cosa è meglio per sé. Quindi, la persona che si impegna nel contratto di Ulisse, come si evince dal DDL, non è in crisi, sta bene. Ma se sta bene, se non è in crisi, perché le vien fatto assumere l'impegno di curarsi?
Riassumendo, per il DDL quando le persone accettano il contratto di Ulisse, non sono in crisi. Entrano in crisi al momento in cui manifestano una volontà contraria.
Ma ora arriviamo al nodo principale. Secondo la psichiatria e gli psichiatri, i malati di mente sono persone incapaci di badare a se stesse, persone che non sono in grado di gestirsi e di prendere decisioni. Che per la psichiatria sia così, ed anche peggio, ognuno lo può abbondantemente verificare.
Seguendo il pensiero della psichiatria - e qui è questo che va preso in considerazione anche se c'è chi, come me, non lo condivide affatto - viene spontaneo chiedersi come può un malato mentale assumere un impegno come quello che è implicito e che scaturisce dal contratto di Ulisse. Cioè, persone a cui non si lascia decidere nulla, a cui non si lascia fare nulla, persone a cui non si affida neanche uno spillo, persone stigmatizzate e considerate come esseri da accudire, da guidare e da gestire, ecc., ecc., ecc., all'improvviso, e per un attimo, da "no buone" diventano "buone", da persone che non sanno scegliere nemmeno su inezie diventano persone capaci, autonome e autodeterminate a tal punto che possono decidere di vincolarsi con l'oneroso contratto di Ulisse?
Vogliono far credere ciò? Vogliono far credere che i "malati mentali" avrebbero autonomia e autodeterminazione? Ma a chi, ma dove e quando? Ma se queste cose spesso non vengono concesse neppure alle persone considerate "migliori", figurarsi se le regalano a piene mani alle persone che stigmatizzano e annullano con le diagnosi di malati mentali.
Concludendo, il succo fondamentale di questo discorso si può condensare nella seguente domanda. Come può un "malato di mente" a cui viene negata e misconosciuta qualsiasi minima autonomia e autodeterminazione e ogni capacità decisionale anche minima, essere poi capace di optare per il contratto di Ulisse?
Mi piacerebbe che qualche persona ponesse, mettendolo alle strette, questa domanda in Parlamento a Carlo Ciccioli mentre dibattono del suo DDL. E mi piacerebbe sentire e vedere su quali specchi si proverebbe la scalata.
Natale Adornetto - Dottore in psicologia

Progetto di Legge Ciccioli e altri (testo unificato)
in discussione alla Camera

Dopo i vari DDL (Disegni Di Legge) via via presentati per modificare la legge psichiatrica italiana, qualche mese addietro è stato presentato un Progetto di Legge con testo unificato e il cui relatore è Carlo Ciccioli. La Proposta di Legge è in discussione alla XII Commissione Affari Sociali della Camera dei deputati.Qui non è mia intenzione analizzare nei dettagli tutto ciò che non va in questa proposta di legge. Per altro, l'hanno già fatto molto bene altre persone. Dico soltanto alcune cose. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), da Obbligatorio diviene "Necessario": viene usata un'astuzia terminologica per far apparire necessario ciò che in realtà è obbligatorio. Quindi, non più TSO ma TSN. Inoltre, dai 7 giorni del TSO, si passerebbe ai 21 giorni del TSN.
C'è poi il TSNEP, il Trattamento Sanitario Necessario Extraospedaliero Prolungato, della durata di 6 mesi, e rinnovabile di 6 mesi a 6 mesi ad oltranza: nel concreto, si vuole far rinchiudere a vita un maggior numero di persone e far nascere un numero abnorme di nuovi manicomi che si aggiungerebbero ai migliaia già esistenti, si vuole privatizzare la psichiatria, si vuol aumentare il business e il badget sulla pelle di migliaia e migliaia e migliaia di esseri umani.Nel testo unificato, rimane presente il contratto terapeutico vincolante (il "contratto di Ulisse").Ciò è inaccettabile, e urge una risposta forte e decisa.
Tante persone dicono che la Proposta di Legge verrà rigettata. Ma solo per questa ipotesi, bisogna starsene con le mani in mano senza far niente ed aspettare? E se il Progetto diviene Legge, se noi ci troviamo di fronte al fatto compiuto, poi che facciamo? Facciamo la petizione, la raccolta di firme on line per chiedere di abolire la specifica legge?Magari servirà a poco, però penso che ci si debba attivare e mobilitare il prima possibile. Dovesse servire anche solamente a informare un certo numero di persone sulle conseguenze apocalittiche a cui porterebbe l'approvazione della legge, sarebbe già tanto.Iniziamo quindi tutti/e ad attivarci fin da adesso. Non dimentichiamo ciò che ha fatto Vendola in Puglia nel 2008 (delibera 1170) e ciò che di recente ha fatto la Polverini nel Lazio (Ciò anche se poi il Governo ha bloccato la concessione di 240 posti letto alle cliniche private). Queste cose sono, secondo me ed altre persone, le prove generali per il ritorno "in grande stile" dei vecchi manicomi e lo spianare la strada al DDL unificato. Mi ritrovo, ci ritroviamo e ci ritroveremo in una situazione a dir poco "contraddittoria". A me e a tantissime altre persone l'attuale legge psichiatrica, la cosiddetta legge Basaglia, piace poco. Basta dire che vi è previsto l'uso e la violenza del TSO e delle coercizioni e che ciò che di buono vi è contenuto in essa (dicitura inerente il rispetto dei diritti e della dignità della persona), non viene per niente preso in considerazione nella pratica concreta, reale e quotidiana degli addetti ai lavori. "Noi" ci battiamo per l'abolizione delle coercizioni e del TSO, mentre ci ritroviamo, causa "forza maggiore" e nostro malgrado, a "difendere" la legge che sancisce il TSO e le costrizioni. E, indirettamente, anche a "difendere" le violenze e le libertà che, essendo contenute e implicite in questa legge, inevitabilmente e consequenzialmente derivano e scaturiscono da essa. Ci ritroviamo costretti a scegliere il meno peggio. L'attuale legge non va cambiata con quella proposta per non far peggiorare le già pessime condizioni nelle quali si ritrovano le persone psichiatrizzate e brutalizzate dalla psichiatria, ma la legge cosiddetta Basaglia non è una buona legge, e noi continueremo a batterci anche contro gli elementi negativi di essa.
Natale Adornetto - Libero antipsichiatra

La socianalisi narrativa - Nicola Valentino (Sensibili allefoglie)


SENSIBILI ALLE FOGLIE
LA SOCIANALISI NARRATIVA (per il 21 maggio)

La socianalisi narrativa è un metodo che consente, attraverso il lavoro di gruppo svolto dagli attori interni ad una specifica istituzione, di analizzare quei dispositivi autoritari e di controllo che risultano mortificanti per le persone implicate e fonte di malessere sociale. Attraverso questo metodo è possibile anche evidenziare le varie modalità attraverso cui le persone si adattano o resistono in modo creativo all’azione dei dispositivi di potere. La pratica socioanalitica che proponiamo considera la narrazione come fonte primaria di conoscenza. Il punto di partenza del lavoro di gruppo consiste quindi nello scambiare esperienze, narrando fatti ed eventi che quotidianamente accadono nei contesti istituzionali che si vogliono analizzare.
La socianalisi narrativa favorisce anche un lavoro di consapevolezza: ogni partecipante è insieme attore direttamente implicato in una specifica istituzione, ma anche osservatore distaccato che lucidamente analizza la sua implicazione.
Per esemplificare l’utilità sociale ed il vantaggio personale dell’apprendimento della socianalisi narrativa ci piace prendere in prestito una citazione di Georges lapassade: “se l’uomo vuole essere soggetto, attore cosciente della sua storia può analizzare le istituzioni dalle quali dipende, le istituzioni che lo attraversano e trovare nell’azione di gruppo una via d’uscita all’atomizzazione burocratica della quale è vittima.”
La cooperativa sensibili alle foglie ha svolto negli ultimi venti anni attività di ricerca allestendo cantieri di socianalisi narrativa in diversi contesti istituzionali, insieme a gruppi di persone che vivono o lavorano al loro interno e che sono state mosse a questa modalità di lavoro collettivo dall’esigenza di sollecitare un cambiamento, di promuovere un diverso racconto di quelle istituzioni e di costruire nuovi legami sociali. Sono state narrate ed analizzate istituzioni carcerarie, psichiatriche, ospedaliere, istituzioni per anziani, e per disabili; i moderni ghetti costruiti per i rom, le aziende della grande distribuzione commerciale, le condizioni di lavoro dei migranti, la vita di strada alla quale sono costretti minorenni e ragazzi stranieri.

Società cooperativa a r.l. Sensibili alle foglie
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Amministrazione ed editoria: borgata Valdiberti, 3 - 12063 Dogliani (CN), tel/fax 0173/742417. E-mail: sensibiliallefoglie@tiscali.it. Ufficio Centro-Sud: tel/fax 0774/311618. E-mail: coop.saf@tiscalinet.it.
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Indice dei contributi scritti per la Conferenza Nazionale

Nuove vie per l'antipsichiatria - Luigi Anepeta

Abstract di Anepeta per 21 maggio
Luigi Anepeta
Nuove vie per l’Antipsichiatria

L’ambizione della psichiatria contemporanea è di estendere il suo potere di controllo farmacologico ad una quota rilevante della popolazione mondiale. L’inquietante e gretto radicalismo di questo progetto, che si evince dalle anticipazioni sulla pubblicazione del DSM-V (la famigerata Bibbia degli Psichiatri), non pone in luce solo la potenza economica delle industrie psicofarmaceutiche, che lo sponsorizzano, ma anche l’acquiescenza dell’opinione pubblica e la debolezza del movimento antipsichiatrico.
L’acquiescenza dell’opinione pubblica è dovuta ad una propaganda che è riuscita ad imporre il concetto biologico della malattia mentale, nonostante esso sia privo di qualunque fondamento scientifico, e ad alimentare la speranza che qualunque sofferenza di ordine psichico possa essere risolta chimicamente.
L’antipsichiatria stenta ad opporre a questo senso comune un codice interpretativo che possa rinnovarlo e una pratica alternativa efficace. Nonostante l’impegno di singoli operatori e di gruppi impegnati a contrastare l’egemonia psichiatrica, occorre riconoscere onestamente che i risultati concreti sul piano dell’aiuto e della “cura” sono piuttosto carenti.
Il discorso antispichiatrico, a mio avviso, va spostato sul terreno della prevenzione e comporta due momenti fondamentali.
Il primo è la diffusione di un codice interpretativo atto a spiegare all’opinione pubblica il senso dei fenomeni psicopatologici in termini di comprensibilità psicodinamica e socio-storica.
Il secondo è la presa d’atto che esiste un orientamento caratteriale che predispone alla genesi di disturbi psichici nella nostra società. Tale orientamento è l’introversione, vale a dire una condizione caratterizzata da una straordinaria capacità intuitiva associata spesso ad una vivace intelligenza.
Il paradosso per cui un modo di essere iperdotato, interagendo con un ambiente di sviluppo negativo, determina troppo spesso l’affiorare di un disagio psichico anche grave, rappresenta il presupposto fondamentale di un’efficace opera di prevenzione.
A questa opera di prevenzione, necessaria in fase evolutiva, si dedica la LIDI (Lega Italiana per la tutela dei Diritti degli Introversi; www.legaintroversi.it), che è attiva a Roma da alcuni anni.

Nuove vie per l’Antipsichiatria, relazione per il 21 maggio
Luigi Anepeta

1. La preannunciata pubblicazione del DSM-5 (la cosiddetta “Bibbia” della Psichiatria) offre, in rapporto alle anticipazioni che sono state fatte sulla stampa, uno spunto di riflessione. Si tratta, come si intuisce, di uno sviluppo intrinseco dell’ideologia psichiatrica, la cui mira è di assoggettare gran parte del mondo all’uso di psicofarmaci. Il target elettivo naturalmente rimangono le grandi sindromi psichiatriche (il Disturbo bipolare e la Schizofrenia), che postulano, nell’ottica psichiatrica, un trattamento farmacologico permanente. La loro incidenza è circa del 2,5% sulla popolazione mondiale (150 milioni di persone). Dato un costo medio giornaliero valutabile intorno ai 10 euro, la realizzazione di un controllo farmacologico su questa popolazione comporterebbe, per le industrie farmaceutiche, un guadagno di un miliardo e mezzo al giorno, cioè più di 500 miliardi l’anno. Si tratta di un business potenziale che ha pochi confronti nell’ambito della medicina.
Ma le ambizioni della Psichiatria non si limitano a questo.
Il commento fatto da alcuni esperti che hanno avuto modo di visionare il DSM-V è che, alla luce dei suoi schemi diagnostici, proliferati tre volte rispetto alla prima edizione, ogni essere umano andrebbe considerato affetto da una qualche patologia che potrebbe essere, se non del tutto risolta, migliorata dall’uso dei farmaci. In teoria dunque almeno 3-4/5 della popolazione mondiale potrebbero aver bisogno, transitoriamente o stabilmente, di cure psicofarmacologiche per i disturbi più vari (dalla timidezza alle compulsioni di ogni genere). Non c’è nulla di sorprendente in un progetto il cui radicalismo sembra quasi provocatorio. Paradossalmente la Psichiatria tende ad eliminare il confine tra normalità e anormalità in senso inverso rispetto a quanto hanno tentato di fare la psicoanalisi e l’antipsichiatria. 
E’ dall’epoca della nascita della psicoanalisi che quel confine è venuto meno, sulla base del riconoscimento del fatto che nuclei conflittuali potenzialmente capaci di produrre sintomi o comportamenti psicopatologici sono presenti in ogni personalità a livello inconscio. Definendo come quantitativo e non qualitativo quel confine, la psicoanalisi, indipendentemente dall’ideologia conservatrice di Freud, ha rappresentato una delle prime contestazioni articolate al paradigma organicistico. Nel suo aspetto rivoluzionario, che implica la messa in discussione della presunta normalità dell’Io, essa avrebbe dovuto promuovere una riflessione profonda sullo statuto mistificato della coscienza, e rinnovare di conseguenza l’approccio alla psicopatologia.
Di fatto, e nonostante i suoi limiti ideologici, la psicoanalisi ha profondamente influenzato l’antipsichiatria degli anni ’60 che, però, non è mai riuscita a trovare un punto di integrazione tra le sue varie tendenze (il libertarismo illuministico di Szasz, la fenomenologia esistenzialista di Laing, il radicalismo sociopolitico di D. Cooper, del collettivo SPK di Heidelberg e di Franco Basaglia). E’ singolare inoltre che il termine antipsichiatria sia stato coniato e adottato solo da D. Cooper e rifiutato da tutti gli altri. Anche per la sua scarsa integrazione teorico-pratica, la spinta culturale dell’antipsichiatria è venuta meno sull’onda della rimozione della cultura degli anni ’70 del Novecento.
I motivi della rimozione, per cui gli antipsichiatri dichiarati oggi in tutto il mondo assommano appena a qualche decina, sono molteplici. E’ fuori di dubbio che dopo l’attacco al modello organicistico, che ha riconosciuto la sua massima e più drammatica espressione nell’Istituzione manicomiale, la Psichiatria, avvalendosi di una sponsorizzazione sempre maggiore da parte delle case farmaceutiche, si è riorganizzata lentamente, ma con una progressione che, negli ultimi 20 anni è divenuta esponenziale.
La riorganizzazione è passata attraverso una propaganda capillare orientata apparentemente in senso umanitaristico. Si trattava, e si tratta, di persuadere le persone che le malattie mentali (anche le più gravi) sono malattie come le altre. L’intento del messaggio era, ed è, di togliere ad esse qual tanto di misterioso e di inquietante, che esse conservano a livello di senso comune. Una conseguenza della medicalizzazione delle malattie mentali comporta, però, che esse vanno curate come le altre malattie, e cioè sostanzialmente con i farmaci. Le prove del successo della propaganda psichiatrica sono statisticamente quantificabili. Solo per parlare dell’Italia, nell’ultimo quindicennio la diffusione di antidepressivi è triplicata, quella degli ansiolitici è raddoppiata e anche i neurolettici (nonché i famigerati equilibratori dell’umore) sono andati incontro ad un’escalation, anche se di minore portata.
Criticare questo andazzo sul piano scientifico è fin troppo semplice. Ancora oggi (e presumo per sempre) non si dà alcuna prova certa che un qualunque disturbo mentale riconosca una causalità meramente biologica. Allorché gli psichiatri affermano, in rapporto ai disturbi dell’umore e alla schizofrenia, che è stata dimostrata la loro base genetica e/o biochimica (quando non addirittura strutturale), essi mentono sapendo di mentire. Sarebbe ingenuo, però, non prendere atto che il successo della Psichiatria non sarebbe potuto avvenire se coloro che si oppongono alla teoria e alla pratica psichiatrica non avesse commesso molteplici errori e non si fossero attestati su una critica radicale sostanzialmente giusta, ma che, in rapporto all’opinione pubblica, lascia il tempo che trova.
Affermo schiettamente che non penso che la teoria e la pratica psichiatrica possano essere superate in virtù di slogan. Affermare che la malattia mentale, intesa come malattia del cervello, non esiste e che i disturbi psicopatologici sono espressioni di vicissitudini relazionali sono verità di fatto che non hanno, però, alcuna incidenza sull’opinione pubblica. Anche se i fenomeni psicopatologici rientrano in massima parte nella categoria, messa a fuoco negli anni ’70 del secolo scorso, della devianza residua, e si esprimono sotto forma di comportamenti che violano semplicemente il senso comune (l’insieme delle norma implicite che definiscono come ci si deve comportare per risultare normali), rimane il fatto che essi, di solito, sono rilevati ed etichettati socialmente ancor prima che intervenga la Psichiatria. L’intervento psichiatrico, infatti, di solito si realizza in conseguenza di un’identificazione sociale del disagio psichico.
E’ la società, insomma, la grande istituzione di controllo da cambiare, perché è essa ad offrire alla Psichiatria il potente punto su cui far leva. Il cosiddetto senso comune (uno dei cui aspetti è la distinzione tra normalità e anormalità) non è un dato fisso e immutabile dell’organizzazione sociale. Esso è riconducibile alla cultura con la c minuscola, vale a dire all’insieme di tradizioni, modi di sentire e di pensare, ideologie, pregiudizi, luoghi comuni, ecc. che, nel loro complesso, contribuiscono, bene o male, a dotare una società di una sua identità e di un certo (sempre precario) grado di coesione. Il superamento del senso comune, vale a dire il prodursi in senso gramsciano di un nuovo senso comune più fedele alla realtà delle cose, dipende dalla Cultura (con la C maiuscola), cioè dalla riflessione critica sull’uomo e sui fatti umani portata avanti da singoli individui che scoprono qualche verità destinata successivamente ad essere riconosciuta dalla società.
Nel suo spirito, di fatto, la legge 180 era orientata in questa direzione, ma la pratica territoriale l’ha messa brutalmente di fronte a indefinite resistenze sociali, legate appunto al senso comune corrente, che, lentamente, l’hanno costretta a regredire sul piano di una pratica distinguibile da quella tout court psichiatrica solo (e neppure sempre) per un atteggiamento umanitaristico che prevale tra gli operatori che ad essa fanno riferimento.
2. Se le cose stanno così, il rilancio dell’antipsichiatria, con l’obiettivo di produrre un nuovo senso comune sui fenomeni psicopatologici, si impone. Il problema è come portarlo avanti. Non ho ovviamente una ricetta magica, ma ho maturato nel corso degli anni alcune riflessioni a riguardo che mi sembra importante esporre.
Anzitutto, occorre essere realisti.
Posto che il termine psicosi è un’etichetta sociale che copre una realtà umana di sofferenza personale e interpersonale, è fuori di dubbio che qualunque esperienza così definita pone rilevanti problemi di gestione sociale e terapeutica. Chi, come me, si dedica da molti anni, alla psicoterapia degli psicotici (utilizzo questo termine senza ovviamente attribuire ad esso alcun significato nosografico), sa bene che i “successi”, che richiedono, tra l’altro una serie di condizioni ambientali favorevoli, non vanno al di là del 25% dei soggetti. Penso che questa percentuale si possa estendere con pochi dubbi a tutte le esperienze alternative alla psichiatria. Ciò significa, né più né meno, che gran parte dei soggetti etichettati come psicotici o perché rifiutano un intervento alternativo (solitamente sulla base della formula per cui i pazzi sono gli altri) o perché ne traggono un modesto vantaggio sono destinati quasi inesorabilmente a confluire nella spirale della Psichiatria tradizionale e a cronicizzare, vivendo, nella migliore delle ipotesi, imbottiti di psicofarmaci. L’esito delle terapie alternative è subordinato, oltre alla resistenza che i soggetti oppongono al riconoscimento della loro sofferenza interiore, al contesto ambientale, e in primis a quello familiare. Il contributo delle famiglie alla genesi interattiva del disagio psichico si può ritenere ormai sufficientemente comprovato. Non si dà ovviamente alcuna colpa da parte delle famiglie, che, senza volere, cadono in trappole interattive il cui effetto è patogeno.
E’ un fatto, però, che quando esse si trovano di fronte ad un membro che esibisce comportamenti strani o abnormi, la loro prima domanda, rivolta agli Psichiatri, è di sapere che cosa egli ha, cioè in pratica da quale malattia è affetto. Gli Psichiatri offrono una risposta standardizzata facendo riferimento ad una malattia mentale di origine genetica/e o biochimica ad evoluzione cronica, che può riconoscere, posta l’adesione alle cure farmacologiche, miglioramenti ma mai la guarigione. Di fronte ad una spiegazione del genere solo alcune famiglie rimangono perplesse. Le altre - la maggioranza -, sia pure con inquietudine e dolore, prendono atto che le cose non possono stare che come dicono gli Psichiatri. Esse non hanno alcuna capacità critica nei confronti di una diagnosi che implica competenze neurobiologiche e mediche che non hanno.
Tutti gli psichiatri alternativi, gli antipsichiatri o coloro che si definiscono non-psichiatri offrono di solito un'interpretazione molto diversa, facendo riferimento a disturbi relazionali e a sofferenze soggettive. Il problema è che questo codice alternativo non chiarisce in alcun modo i nessi che si danno tra interazioni interpersonali, elaborazioni soggettive e comportamenti psicopatologici. Per quanto frutto di una mistificazione, insomma, il codice interpretativo psichiatrico viene in genere accettato, perché “spiega” (utilizzando una metafora medica) ciò che sta accadendo, mentre quello alternativo viene rifiutato in quanto non sembra in grado di spiegare i fenomeni psicopatologici nella loro apparente irrazionalità e assurdità. Tranne che non ci si voglia ridurre nel ruolo di “illuminati” che sanno come stanno le cose, anche se la maggioranza rifiuta la verità, occorre farsi carico dei due dati importanti cui ho fatto cenno - il rifiuto di parecchi pazienti psicotici di riconoscere la loro sofferenza e il loro bisogno di aiuto e la cultura media delle famiglie, che le induce ad accettare, bon gré mal gré, la diagnosi e il trattamento psichiatrico - e chiedersi che cosa si possa fare.
Sinceramente, nell’immediato penso che non si possa fare molto se non continuare a lottare contro i più evidenti soprusi che avvengono in violazione della legge 180. Ma la teoria e la pratica psichiatrica tradizionale si possono ritenere in toto un sopruso dei diritti dei pazienti, anche quando si realizzano nel rispetto della legge. Il superamento della Psichiatria potrà avvenire solo in virtù di un programma a medio e a lungo termine incentrato su di un’opera capillare di prevenzione e su di un lavoro culturale che fornisca ai pazienti, alle famiglie e alla società una nuova chiave per interpretare i comportamenti psicopatologici.
Per quanto riguarda la prevenzione, due aspetti mi sembrano importanti.
Il primo è introdurre nelle scuole (a partire dalle medie) una nuova disciplina - che definisco panantropologia - la quale possa trasmettere il sapere accumulato sul funzionamento del cervello e della mente dalla genetica, dalla neurobiologia, dalla psicoanalisi, dalla sociologia, ecc. Ci si può chiedere a cosa possa servire una cosa del genere.
Faccio, a riguardo, solo due esempi.
Il primo riguarda le allucinazioni. Freud ha avanzato l’ipotesi che le allucinazioni equivalgano a sogni ad occhi aperti, vale a dire ad irruzioni dell’inconscio nello spazio della coscienza. Si tratterebbe dunque di fenomeni significativi degli assetti interiori dei soggetti, che, però, avvenendo in stato di vigilanza, non comportano la consapevolezza della loro genesi interna. La neurobiologia ha scoperto che le allucinazioni attivano gli stessi centri percettivi che sono sollecitati dagli stimoli ambientali. Ciò significa che quei centri possono essere stimolati anche dall’interno. Ciò rende conto della difficoltà dei soggetti di distinguerle dalle percezioni reali.
Se le allucinazioni equivalgono a sogni ad occhi aperti, esse si realizzano ogni notte in ogni soggetto attraverso l’attività onirica. Tutti gli esseri umani, dunque, sperimentano fenomeni allucinatori. La potenzialità allucinatoria della mente è, dunque, universale. L’unica differenza è che, in alcuni soggetti, tale potenzialità, per effetto di conflitti interiori, si attiva anche di giorno. Se questa consapevolezza venisse a fare parte del senso comune, penso che affrontare esperienze all’interno delle quali si realizzano fenomeni allucinatori sarebbe molto più semplice, perché non comporterebbe alcuna etichetta ma solo l’intento di capire il loro significato.
Il secondo esempio riguarda la predisposizione al disagio psichico. Mettendo da parte l’ipotesi psichiatrica della vulnerabilità costituzionale allo stress, ritengo che tale predisposizione esista, ma sia di legata ad una tipologia di personalità che, tra i suoi vari sviluppi, comporta anche la possibilità di cadere in una trappola psicopatologica. Cerco di chiarire questo aspetto, che ritengo di fondamentale importanza.
Gli esseri umani vengono al mondo con le stesse caratteristiche mentali: sono dotati di capacità emozionali, intuitive e cognitive. E’ ingenuo però non riconoscere che si dà una differenza tipologica fondamentale, originariamente messa in luce da Jung: la differenza tra estroversione e introversione.
Se poniamo da parte il pregiudizio che, nella nostra società mercantile (all’interno della quale la normalità postula la capacità di valorizzare se stessi, di esibirsi e di vendersi), incombe sull’introversione, si giunge facilmente a riconoscere in essa un modo di essere affatto particolare, caratterizzato da grandi capacità intuitive ed emozionali spesso associate ad una vivace intelligenza. Non è un caso che questa tipologia sia fortemente rappresentata in ambiti culturali intensamente creativi (filosofia, letteratura, musica, arte, scienza, ecc.). Nella storia della psicoanalisi, varie volte coloro che si sono dedicati alle “psicosi” hanno rilevato le doti non comuni presenti nei pazienti. Io sono giunto alla conclusione che tali doti siano da ricondurre ad un corredo genetico introverso.
Perché mai, però, c’è da chiedersi un corredo del genere esita spesso in un’esperienza di disagio psichico?
La risposta è semplice.
Gli introversi non sanno di esserlo perché nessuno glielo dice. Essi non solo percepiscono una diversità dolorosa rispetto agli altri, che non riescono a comprendere. In conseguenza delle loro capacità intuitive e di un ricco corredo emozionale, essi colgono al volo le infinite contraddizioni che caratterizzano il mondo e, non comprendendole, stentano ad adattarsi ad esse. In più, essi si confrontano con un modello di normalità prevalente - quello estroverso - che li opprime, essendo per molti aspetti estraneo al loro essere. E’ difficile illustrare qui come da queste premesse si giunga al disagio psichico. In termini generali basterà dire che, interagendo con un ambiente inconsapevolmente (e talora purtroppo consapevolmente) ostile, per un verso gli introversi sviluppano un vissuto di radicale inadeguatezza e, per un altro, vanno incontro a molteplici reazioni di rabbia nei confronti dello stato di cose esistente nel mondo. La rabbia accumulata nel corso degli anni, sia vissuta coscientemente o rimossa, ha degli effetti solitamente catastrofici, sia che essa imploda o che, più di rado, esploda.
Io non ritengo che l’introversione sia in sé e per sé una predisposizione al disagio psichico. Penso piuttosto che, se non si imbatte in circostanze ambientali avverse, essa può portare le persone a realizzare esperienze estremamente significative sotto il profilo umano, affettivo, sociale e creativo. E’ un fatto però che, nel nostro mondo, le condizioni ambientali di sviluppo sono, per gli introversi, negative, e facilmente danno luogo ad un malessere sotterraneo che, alla fine, può esitare in un disagio psichico franco. Nella mia esperienza di psicoterapeuta, che dura ormai da oltre trent’anni, ho riscontrato tratti evidenti di introversione in quasi tutti i pazienti. Il campione evidentemente è limitato, ma non penso che il rilievo sia casuale né tanto meno dovuto ad una distorsione interpretativa. Le carriere di vita che si ricostruiscono in rapporto alle fasi evolutive sono sostanzialmente due: quella dei bambini d’oro e quella dei bambini difficili, più o meno intensamente oppositivi. Entrambi queste categorie sono facilmente identificabili a livello scolastico, e su esse si può e si deve intervenire. La prevenzione del disagio psichico, a mio avviso, passa attraverso la diffusione di una cultura che consenta agli introversi di seguire i loro modi e tempi di sviluppo e di essere riconosciuti nel loro valore umano.
E’ a questo fine che ho fondato un’Associazione - la LIDI (Lega Italiana per la tutela dei Diritti degli Introversi: www.legaintroversi.it) - il cui intento è di promuovere il riconoscimento precoce della diversità introversa e i suoi possibili sviluppi negativi in fase evolutiva, che precedono con una frequenza inquietante la manifestazione di un disagio psichico.
Il riferimento all’introversione è estremamente importante nel rapporto con le famiglie perché offre loro un codice interpretativo di ciò che è accaduto e che accade il quale può essere agevolmente compreso e, almeno per quanto riguarda le fasi evolutive, verificato. I nessi tra introversione e manifestazioni psicopatologiche sono naturalmente più complessi. Rimando a riguardo al mio sito personale (www.nilalienum.it) nel quale ho tentato di esporli in maniera articolata. Sul sito è presente anche una sezione dedicata all’Antipsichiatria, che viene aggiornata di continuo. Rimane ferma la mia convinzione che, al di là del contrastare la violenza psichiatrica, occorre procedere ad una riorganizzazione culturale del sapere sull’uomo e sui fatti umani (compresi quelli psicopatologici) che, nel corso del tempo, potrà produrre un nuovo senso comune riguardo ad essi. 

Indice dei contributi scritti per la Conferenza Nazionale

I gruppi di lavoro della Conferenza Nazionale del 21 maggio 2011


CONFERENZA NAZIONALE del TELEFONO VIOLA

21 MAGGIO 2011 ORE 9.00 - 17.00

“I Vent’anni del Telefono Viola “
Contro gli abusi e le violenze psichiatriche

Gruppi di lavoro
Pomeriggio
Ore 14.30- 16.00- Costituzione dei gruppi di lavoro
I campi e le reti dell’iniziativa del telefono Viola

1)La contestazione teorico/politica; 2) Gli strumenti legali e l’attacco alla
proposta Ciccioli; 3) La rete dell’alternativa: Laboratori, orti sociali,
comunità aperte; teatro espressivo;gruppi di mutuo soccorso. Costituzione di una
rete sociale e familiare; 4) Sviluppo territoriale del Telefono Viola.

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I Gruppo
La contestazione teorico/politica
Coordinano
Giorgio Antonucci- Luigi Anepeta- Giuseppe Bucalo
Mariano Loiacono-Vincenza Palmieri
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II Gruppo
Gli strumenti legali e l’attacco alla proposta Ciccioli
Coordinano
Natale Adornetto - Gioacchino Di Palma
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III Gruppo
La rete dell’alternativa: Laboratori, orti sociali, comunità aperte; teatro
espressivo;gruppi di mutuo soccorso. Costituzione di una rete sociale e
familiare
Coordinano
Anna Grazia Stammati-Emma Bruno
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IV Gruppo
Sviluppo territoriale del Telefono Viola
Coordina
Alessio Coppola
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Indice dei contributi scritti per la Conferenza Nazionale

Nota sullo sviluppo territoriale del Telefono Viola Nazionale


Nota sullo sviluppo territoriale del Telefono Viola Nazionale o originario

(per la Conferenza Nazionale del ventennale del 21 maggio 2011, lavoro di gruppo del pomeriggio)

Partiamo dal presupposto che Il Telefono Viola è stato costituito a Roma il 22 ottobre 91 dal sottoscritto, sulla base della teoria e della pratica di Antonucci, che è tuttora il nostro consulente nazionale, come riporta il nostro blog (clicca Telefono Viola Roma 91 da Google). Nello statuto originario del ’91 si precisa che il Telefono Viola costituito a Roma è “ad ambito nazionale” e “può costituire sedi decentrate”. In questo senso, e per queste ragioni costitutive il Telefono Viola assume fin dal suo inizio il carattere di Telefono Viola Nazionale.
La storia invece è andata per conto suo, sono nati da sé per lo più gruppi del Telefono Viola (meno associazioni), alcuni con maggiore rapporto con il Telefono Viola fondativo (o Nazionale), altri meno, altre più svincolate rispetto ai referenti nazionali storici come Giorgio Antonucci. Questi “gruppi” hanno, in una certa fase e per breve tempo, provato a organizzarsi in un coordinamento, rimasto poi sulla carta.

Come Telefono Viola costitutivo, riteniamo sia necessaria una maggiore adesione allo statuto originario, nel quale è inserito il riferimento essenziale alla legge sul volontariato e ad altre finalità di solidarietà sociali(Vedi statuto pubblicato sul blog).

Il decentramento organizzativo, così come previsto dal CESV del Lazio (Centro Servizi del Volontariato) e deliberato dal nostro Consiglio Direttivo, si articola come segue:
  • Presa di contatti tra persone interessate localmente e il Telefono Viola Nazionale (esattamente “costituito ad ambito nazionale”, Nazionale per brevità) e garanzie che non vengano prese posizioni localmente contrastanti con le posizioni del Telefono Viola Nazionale. Ancora meglio, partire dalla delega concordata a singoli “Referenti Territoriali del Telefono Viola per la provincia di x” per dare tempo allo sviluppo dell’esperienza. 
     
  • Adesione formale del Referente Territoriale allo statuto fondativo con domanda di affiliazione.

  • Costituzione della sede autonoma del Telefono Viola su base provinciale (prima che regionale) con l’assunzione dello stesso statuto fondativo e un consiglio direttivo locale. Questa “costituzione” della sede locale/provinciale con cui si assume il nostro stesso statuto, dà la possibilità di costituire sedi autonome dal punto di vista amministrativo (con un proprio atto costitutivo, codice fiscale, tesseramento, e conseguente diritto di presentare progetti alla propria Regione ecc.) e nello stesso tempo l’adesione alla realtà nazionale.

  • Sviluppo del rapporto tra Nazionale e Territoriali secondo la normale prassi delle organizzazioni diffuse sul territorio nazionale, che prevede dopo un certo tempo un Regolamento Nazionale per i loro rapporti e il riconoscimento dei ruoli e delle autonomie.
Il nostro Consiglio Direttivo, dopo studi e consulenze, ha scelto questa strada, come la più capace di garantire diffusione, autonomia e unità d’intenti, e a questa ci stiamo attenendo in questa nota, salvo ulteriori approfondimenti.
Cosa ci auguriamo? Ci auguriamo che gruppi già esistenti autonominatisi “Telefono Viola” si regolarizzino nel tempo secondo quanto su indicato. Che anche persone singole, già operanti sulla questione contro TSO e altre costrizioni psichiatriche, prendano contatto con noi per come formare i nuclei associativi autonomi iniziali ecc.
Raccomandiamo, soprattutto in questa fase, di usare con la dovuta prudenza il nome “Telefono Viola” e di concordare con noi soprattutto le contestazioni di carattere legale per un’eventuale azione combinata da concordare tra realtà nazionale e realtà territoriale contro Strutture Psichiatriche Ospedaliere e extra.
Il Telefono Viola Nazionale o fondativo si riserva comunque di garantire l’uso del nome “Telefono Viola” (che è un marchio registrato e protetto dalla legge), e di vietarlo legalmente ogni qual volta ciò fosse necessario per contrastare comportamenti lesivi della dignità e del buon nome dell’associazione.
Restiamo disponibili ad ogni chiarimento, sviluppo e approfondimento, augurandoci il successo e e l’espansione del Telefono Viola “contro gli abusi e le violenze psichiatriche”, così come evidenziato nel suo atto costitutivo.

Roma, 21 maggio 2011
Alessio Coppola, presidente e legale rappresentante di TELEFONO VIOLA

P. S. Con un’associazione di Trento stiamo già operando, in pieno accordo, per la costituzione di un “Telefono Viola per la provincia di Trento” (su iniziativa di Catterina Verona, attualmente “Referente Territoriale di Telefono Viola per la provincia di Trento”).
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Relazione sull'attività di Telefono Viola


Relazione sull’attività di Telefono Viola

Gli Inizi
Telefono Viola è stato costituito con un atto notarile a Roma il 22 ottobre 1991, come associazione di volontariato senza fine di lucro. Il fondatore è Alessio Coppola, filosofo, formatore e counsellor, allora Presidente del CEU Centro di Ecologia Umana, collegato per alcuni anni a Legambiente. Telefono Viola s’ispira fin dall’inizio alla teoria e alla pratica, in breve “approccio non psichiatrico” del Dott. Giorgio Antonucci, medico psicoanalista di Firenze. Questi, collaboratore di Franco Basaglia, ha caratterizzato la sua pratica con il rifiuto dei trattamenti sanitari obbligatori e della cultura stessa manicomiale. Alessio aveva conosciuto da vicino le esperienze di liberazione manicomiale attuate dal Dott. Antonucci, raccogliendole in un libro da lui stesso curato (“I pregiudizi e la conoscenza - critica alla psichiatria”, ed. Cooperativa Apache 1985).

Il Telefono Viola è concepito da Alessio Coppola e da alcuni suoi collaboratori del CEU come uno strumento pratico e organizzativo, che più che fare discussioni teoriche, difende in concreto e sulla base delle leggi esistenti, i diritti dei cittadini che si trovano a fare esperienza dei trattamenti psichiatrici, soprattutto quando sono imposti contro la volontà del paziente.

Accanto a quest’azione di tutela, affidata a legali ed esperti giuridici, l’associazione svolge un’attività di ascolto e solidarietà con i nuclei familiari, che spesso confliggono al loro interno in rapporto ai problemi posti dai trattamenti psichiatrici. La prima idea di fare un telefono viola venne, infatti, dopo un incidente occorso nell’agosto del 1991 a un giovane ricoverato in TSO al Forlanini di Roma, Davide Catalano, che non si poté salvare da un incendio scoppiato nella stanza dove era legato in TSO e che per questo subì l’amputazione di una gamba. La necessità di portare subito alla conoscenza dell’opinione pubblica e della giustizia i tanti casi di abuso e violenza psichiatrica fu la molla che portò all’ideazione di Telefono Viola.

Lo sviluppo
I primi cinque anni sono caratterizzati da un’intensa attività di denuncia pubblica, anche con interviste alla TV di stato e privata. Inoltre l’approccio non psichiatrico del Telefono Viola è stato fin dall’inizio pubblicizzato nei vari convegni nazionali di “ecologia umana”, svolti in collaborazione con il CEU di cui si è detto sopra. Particolare risalto nel settore della salute mentale e sulla stampa, ha avuto la “campagna contro l’uso dell’elettroshock”, che portò a una raccolta di migliaia di firme e a un ordinamento di quel trattamento, almeno con l’imposizione ministeriale della modulistica per il consenso informato.

Va qui precisato che l’attività più costante, anche se nell’ombra, è stata quella di dare un orientamento alle centinaia di persone che si sono rivolte al Telefono Viola, per prevenire il più possibile le forme costrittive dei trattamenti psichiatrici. In molti casi, il Telefono Viola attraverso la sua opera di solidarietà sociale, di denuncia degli abusi, persuasione e mediazione familiare, ha evitato pericolosi ricoveri psichiatrici, per lo più consigliando approcci più dialogici e lo stesso impegno sociale come uscita dalle ottiche individualistiche ed emarginanti.

Non si può tralasciare in questa breve rassegna, il ruolo di vero allarme sociale che il Telefono Viola ha avuto verso la fine degli anni 90 nel denunciare, attraverso visite improvvise a istituti psichiatrici come quello di Guidonia o a Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), come quelli di Reggio Emilia, Aversa e Monte Lupo Fiorentino, le condizioni di sub-umanità in cui versavano -ma tuttora versano, come ha dimostrato la recente ispezione del senatore Ignazio Marino-, la maggior parte dei detenuti degli OPG.

I primi anni di attività del Telefono Viola sono stati raccolti nel libro di Alessio Coppola e Giorgio Antonucci: “Il Telefono Viola, contro i metodi della psichiatria” ed. Eleuthera, 1995, Milano. Negli stessi anni sono sorti spontaneamente e non sempre in collegamento con il Telefono Viola originario, altri Telefoni Viola in altre città come Bologna, Genova, Catania, Milano, ecc., che seppure informali e da regolarizzare, hanno dimostrato l’importanza e la necessità di una particolare denuncia e prevenzione nel settore dell’abuso psichiatrico.

La prospettiva attuale
Ripresa dopo una lunga pausa di riflessione e di studio dei vari fenomeni osservati, il Telefono Viola durante l’anno 2010, ha consolidato il suo assetto organizzativo. Prima, con la sede a Piazza Vittorio presso il Consorzio Il Solco e ora con la sede più autonoma presso la JP Association in Via Benedetto Croce 49, il Telefono Viola ritorna ad una piena attività pubblica, ufficializzata ancor più dalla sua registrazione in corso presso la Regione Lazio.

Le nove conferenze sociali tenute lo scorso anno hanno visto una partecipazione molto attenta di molti utenti della psichiatria e loro familiari desiderosi di parlare apertamente delle loro problematiche senza subire le frequenti costrizioni psichiatriche cui andavano incontro. Si pensa quindi di intensificare il primo ascolto telefonico selettivo, anche con appositi corsi di formazione in collaborazione con l’Associazione di Promozione Sociale “LUVIS” (la Libera Università del volontariato e dell’Impresa Sociale, fondata da Alessio ed altri counsellor, per formare il volontariato nelle competenze tecniche e relazionali). Sarà rilanciato ed approfondito il metodo delle conferenze sociali, basato sui principi dell’ecologia umana e del dialogo, continuando a dare tutta l’assistenza possibile in materia legale attraverso il ricorso a avvocati esperti.

Per quest’ultimo settore, saranno perfezionate le iniziative che chiamiamo di prima tutela, che sostengono le persone prese in TSO con forme di diffida prelegale tendenti a rappresentare gli interessi e i diritti degli utenti psichiatrici possibilmente fin dai primi giorni dei loro ricoveri.

Intanto, il Telefono Viola sta seguendo da vicino, con i legali di sua fiducia, il processo per la morte dell’insegnante FrancescoMastrogiovanni, deceduto nell’agosto del 2009 dopo ottantadue ore di contenzione, presso il Tribunale di Vallo della Lucania, dove l’associazione si è costituita -ed è stata accettata- come parte civile a rappresentanza dei suoi interessi nella difesa di tutte le vittime delle costrizioni psichiatriche. 
 
Infine, con la prossima Conferenza Nazionale del 21 maggio, promossa in occasione del ventennale della nascita, Il Telefono Viola promuoverà scambi e reti sociali tra il Telefono Viola, i familiari, gli utenti, gli operatori e i cittadini che, a diverso titolo, sono coinvolti nel problema dei diritti dei pazienti in ambito psichiatrico soprattutto se costrittivo, come il TSO.

Roma 26 aprile 2011
Alessio Coppola
Presidente di Telefono Viola
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